Deità  Silvane. Liriche da camera

Musiche di Ottorino Respighi
Gemma Bertagnolli, soprano
Aldo Orvieto, pianoforte

Deità Silvane (1917)

Cinque liriche su parole di Antonio Rubino. Dedica: Alla Contessa Anna Piccolomini Edizioni Ricordi, Milano

Stornellatrice (1906)

Poesia di: Carlo Zangarini, Alberto Donini. Dedica: Alla Signorina Maria Pedrazzi Edizioni Bongiovanni, Bologna

Quattro Rispetti toscani (1915)

Poesia di: Arturo Birga. Dedica: Alla Signora Argia Pini Edizioni Bongiovanni, Bologna

Tanto bella (1897)

Edizioni Bongiovanni, Bologna

“Evviva Rosabella” (Baldassarre Galuppi, 1706-1785)

Realizzazione del Basso numerato di Ottorino Respighi (1912). Manoscritto inedito conservato presso il Fondo Ottorino Respighi, Fondazione Giorgio Cini, Venezia

Antiche cantate d’amore

Realizzazione del Basso numerato di Ottorino Respighi (1912). Manoscritto inedito conservato presso il Fondo Ottorino Respighi, Fondazione Giorgio Cini, Venezia

L’ultima ebbrezza (1896)

Poesia di: Ada Negri Edizioni Bongiovanni, Bologna

Cinque Canti all’antica (1906)

Poesia di: Giovanni Boccaccio (I. II. III.), Alberto Donini (IV. V.) Dedica: a Giuseppe Borgatti (I. II. III.), a Venturino Venturini (V.) Edizioni Bongiovanni, Bologna

Scherzo (1906)

Poesia di: Carlo Zangarini. Dedica: Alla Signorina Maria Pedrazzi Edizioni Bongiovanni, Bologna

M’arriva il master del disco di Respighi con Gemma Bertagnolli e Aldo Orvieto, mi chiedete se posso scriver qualche nota come presentazione. No, non posso. Non che non sappia nulla sull’argomento. Di Respighi ho ascoltato e veduto opere liriche, effusive, un po’ simboliche e un po’ enfatiche, ho sentito per dischi a cominciare dal vinile poi nelle grandi sale da concerto le sue dilaganti e stupefacenti orchestrazioni dei pezzi sinfonici, ho ascoltato dalla Tebaldi fulgidamente o altre volte in precarie audizioni le sue liriche più famose; una volta le ho persino accompagnate in un piccolo concerto, accettando a patto che la cantante includesse nel programma “L‘ultima ebbrezza”, perché alla fine resta solo il pianoforte in un crescendo modulante d’accordi, che, dopo avere udito in parole la richiesta del fremito supremo dell’amore, sul pianista fa un effetto che non vi dico. Ho la mia idea su Respighi, e la mia idea sul Novecento storico italiano, che facciamo fatica un po’ tutti a riaccogliere nella nostra mentalità, perché sempre un poco pomposo e sovraesposto. Già dire “Deità silvane” fa venire la paura di ritrovarci con Carducci alle Fonti del Clitumno, o al posto di D’Annunzio sotto la pioggia con Ermione, bella poesia la prima, splendida la seconda, ma già in fondo al sacco dorato della nostra cultura d’oggi. E quelle arcaiche cantate, con l’armonia che ci obbliga a una sosta fra il lontano passato e noi in un ieri che non è più il nostro e in un gusto di troppi sapori indistinti, quando abbiamo appena imparato a collegarci direttamente con l’antico sulle onde della filologia! Quando ascolto una cosa nuova, devo mettere tutto in gioco, e non ho più tempo e voglia di giocare su una cosa di ieri. E poi ve lo confesso: con Respighi ho già perduto una scommessa con me stesso, due anni fa. Ascoltavo “I pini di Roma” eseguito con forza e fascino da una giovane orchestra italiana, quella della Fondazione Toscanini. Cominciava l’ultimo crescendo, e mi dicevo che bisogna proprio essere nutriti di cultura italiana, di sapori nostrani, di piacere del canto e della festa dei suoni, per apprezzare veramente. Ma eravamo a New York, al Lincoln Center, ed all’ultimo accordo la gente si era alzata tutta in piedi dall’entusiasmo. Così, per penitenza, ho dovuto rianalizzare la partitura, chiedendomi perché fosse così trascinante e vittoriosa, e me stesso, chiedendomi perché ci lasciamo così pigramente prendere da pregiudizi. Non chiedetemi di pensar oltre. Soprattutto in questo caso, dove dovrei risolvere il problema di perché una cantante che ha per scelta sua prevalente il repertorio barocco abbia desiderato misurarsi con una poetica e un linguaggio così lontani. Tante note, tutte fitte e tutte scritte, poco spazio, via fra gli endecasillabi e gli altri versi non declamati con un clavicembalo o un’orchestra ossequienti, ma a gara con un pianoforte che vuol dire la sua in ogni momento, e a volte a rompicollo. No. Non voglio correre rischi. Tanto più che, per fatale tentazione, ho fatto un piccolo assaggio d’ascolto, ed ho avuto non dirò un piccolo choc ma almeno una pungente sorpresa. Ricordavo l’autorevole ingombro delle voci importanti che cantavano la musica di quell’epoca, divorando sontuosamente vocali e consonanti, e le gole gonfiate delle giovani imitatrici consigliate di far sentir la voce soprattutto, e arrivavano sempre in confusione. Mi è arrivata qui invece una nitida voce fresca, affettuosa, avvezza a giocare con le parole non soltanto per pronunciarle, ma per trarne i troppi significati, le passioni, le ironie, le domande che contengono. La melodia svetta in cima al pentagramma ma dove un suono è ancora naturale, nelle note basse le frasi paiono una confidenza, un monito. Per fatale attrazione ne ho ascoltato un altro brano, ed era uno stornello toscano, e mi veniva in mente Cecco Angiolieri e anche Malaparte, e se non mi obbligavo a non pensare anche Bartali e Benigni, tutte persone che non pensavo d’incontrare. E sopra a loro, come una giocosa sfida lieve per le invincibili ragioni della femminilità, la parola buttata là allegramente e maliziosa. Giuro, ho interrotto presto il terzo ascolto. Perché mi cominciavo a chiedere se non abbiamo imparato a portarci dietro un bagaglio troppo pesante quando ascoltiamo. Se qualche volta non cerchiamo tanto di conquistare e godere, quanto di riaffermare che capiamo, di organizzarci su come capire, con quali parametri di cultura, per poter dare giudizi, a costo di rimanere colpevolmente sempre bene attaccati a noi stessi, come quelli che quando vanno all’estero anche solo per un giorno cercano per prima cosa il ristorante italiano. Se non cerchiamo soprattutto di catalogare. Il Respighi dei programmi di sala, delle note di copertina, è un po’ così: non dirompente come Schoenberg, non prezioso come Debussy, non scarno come Ungaretti e Montale, non visionario come Gabriele Rossetti o Federico Fellini. Il Respighi di Gemma Bertagnolli e di Aldo Orvieto arriva prima, come se insieme raccontassero una sofferenza di ricordi lontani, una felicità di parole vicine, una telepatica intesa nella musica. Per questo adesso chiudo questa lettera e ve la spedisco, e non vi scrivo niente.