Pubblicazioni multimediali Archives - Pagina 2 di 4 - Fondazione Giorgio Cini

DVD laboratorioarazzi 2010

Il DVD, prodotto grazie al contributo dell’Istituto per la Musica della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, racconta il percorso del laboratorioarazzi svoltosi nel 2010: cinque seminari-laboratori-incontri-progetti sulle “prassi esecutive e compositive con l’elettronica” in uno spazio esclusivo – il salone degli Arazzi della Fondazione Giorgio Cini – che diventa musicale grazie al residente sistema di diffusione sonora ad otto canali. Un percorso fra i suoni del soundscape veneziano e i flauti del progetto PRIME (Paetzold Recorder Investigation for Music with Electronics) diretti da Antono Politano, fra le voci straordinarie della Session #14 dell’Institute for Living Voice, i cui ospiti d’eccezione Barbara Hannigan, David Moss e Trevor Wishart hanno guidato altrettanto eccezionali giovani cantanti e compositori in un viaggio fra voce, elettronica e improvvisazione. Un percorso fra i …fili bianco velati… di Adriano Guarnieri, il cui titolo proviene da una lirica di Paul Celan che ben si addice allo spirito del brano che tocca fili acutissimi ben evidenziati da Amalia De Gotzen al live-electronics, dalla regia del suono di Alvise Vidolin e dal violino di Carlo Lazari, e l’“Energia leggera con eco” del flauto con elettronica dal vivo, in cui brani di Corrado Pasquotti, Filippo Perocco e Luigi Sammarchi sono stati eseguiti dalla flautista Federica Lotti con la regia del suono di Alvise Vidolin.
I materiali video, accompagnati dai sottotitoli in inglese, ripresi e montati da Alberta Ziche dello Studio EMBTOOL di Padova, sono più di una semplice documentazione; sono il racconto di una storia che ha coinvolto studenti, docenti, istituzioni, spazi unici per la loro bellezza e suggestività, sia visiva sia sonora, e ha dato vita ad un percorso, il cui filo conduttore è stato la passione per la musica e per gli spazi in cui essa viene prodotta, eseguita, ascoltata.

Piano Concertos; Quadrivium

Presentato il 22 giugno 1942 nel contesto del “Corso Internazionale di perfezionamento per compositori” tenuto da Gian Francesco Malipiero a Venezia (tra gli allievi del corso erano Bruno Maderna e il pianista Gino Gorini) il Primo Concerto per pianoforte e orchestra rappresenta un momento di autentica immediatezza di scrittura, testimonianza di equilibrio tra sviluppo tecnico e solidità strutturale. L’opera, recentemente ritrovato a Verona tra le carte della pianista Bianca Coen, sfoggia una parte solistica brillante e a tratti virtuosistica integrata in un raffinato contesto timbrico orchestrale, con ricercatezze audaci che fanno presagire il Maderna geniale orchestratore della maturità. Bruno Maderna teneva molto al Concerto, lo prova il fatto che, nella primavera del 1946, grazie all’amicizia con Bianca Coen il cui fratello Buby risiedeva a Londra, avesse tentato di proporne un’esecuzione forse ad opera di Arturo Benedetti Michelangeli il quale in quegli anni si preparava al suo debutto londinese. Per sostenere l’esecuzione del Concerto presso gli organizzatori delle stagioni concertistiche londinesi, Maderna preparò una trascrizione per due pianoforti che si proponeva di incidere lui stesso insieme a Gino Gorini: «Mi sono interessato e ho trovato da inciderlo in quei dischi di metallo che fanno oggi alla radio», scriveva in una lettera alla madre adottiva, Irma Manfredi il 4 aprile 1946. Non sappiamo se l’incisione sia mai avvenuta, ma la trascrizione pianistica è miracolosamente sopravvissuta: una copia eliografica del manoscritto è stata ritrovata da Giovanni Morelli nel 2007 nel corpus del Fondo Gorini presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Tale versione pianistica, di estremo interesse, non rivela sostanziali differenze rispetto alla partitura del Concerto del 1941, ma risulta un testimone prezioso per valutare i grandi progressi musicali di Maderna nel periodo 1941-46: egli infatti – trascrivendo per due pianoforti – via via corregge e aggiorna dinamiche e agogiche della partitura alla luce della sua più recente tecnica e sensibilità musicale.

Larillirà 

Nel centenario della nascita di Nino Rota (Milano, 3 Dicembre 1911) l’Istituto Centrale per i beni sonori ed audiovisivi ha voluto realizzare, in collaborazione con GDM Music, questa raccolta che documenta una parte della sua produzione musicale per il cinema (a partire da Treno Popolare del 1933 per arrivare fino a Le notti di Cabiria del 1957), quella con più attinenza e contatti con la forma della canzone e antecedente al clamoroso ed universale successo conseguito nel 1960 da La dolce vita di Federico Fellini, sesta collaborazione tra il regista riminese e il Maestro milanese.

Sin dall’inizio del suo rapporto con il cinema Nino Rota si confronta dunque con la canzone, anche se continuerà saltuariamente a pensarla in forma di commento musicale alle immagini nelle sue componenti di musica e testo, e sceglierà invece di affidare alla sola musica la forza di sottolineare le sequenze cinematografiche, riuscendo a conferire ad essa una grande forza espressiva ed una suggestione malinconica di forte impatto, compensata spesso dai temi musicali di stampo bandistico con i quali amava contrappuntare il tema dominante di un film. E fu proprio la grande espressività di alcuni di quei temi a suggerire la possibilità che potessero diventare canzoni, una condizione che accompagnerà le musiche di Rota dal successo internazionale di La strada fino alla enorme popolarità del tema d’amore da Il Padrino, che scalerà prima la hit parade italiana diventando Parla più piano e poi quella americana ed inglese ribattezzandosi Speak Softly Love. Nell’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta il mondo della musica leggera era ancora imperniato fondamentalmente sulla canzone, e molto meno sugli interpreti. Casomai erano i direttori di orchestra che tenevano le fila dei cantanti del proprio organico e li gestivano quasi come se fossero dei musicisti, giusto con quel briciolo di autonomia in più che la voce di un interprete reclamava, forte di una immagine pubblica che ne faceva di volta in volta aumentare la popolarità grazie all’arrivo della televisione. Ma erano le canzoni, ancora, il centro dell’attenzione, e fu proprio grazie a questa centralità che nacque il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, che cominciò a scompaginare le carte in favore degli interpreti, pur mantenendo al centro del suo interesse le composizioni di musica e testo. Questo spiega il fatto che le canzoni più popolari avessero molti interpreti, al di là dell’artista che ne aveva effettuato la prima incisione, ed è proprio grazie a questa consuetudine che alcuni dei temi musicali composti da Nino Rota per il cinema si affermarono anche come canzoni. La realizzazione di questo disco si inserisce anche nella politica di valorizzazione e promozione del patrimonio dell’Istituto Centrale per i beni sonori ed audiovisivi, dalle cui raccolte provengono tutte le tracce sonore dei dischi a 78 e 45 giri comprese in questa antologia, sottoposte ad un trattamento di restauro digitale effettuato nel laboratorio di restauro elettronico del nostro Istituto.

Massimo Pistacchi (Direttore dell’Istituto Centrale per i beni sonori ed audiovisivi)

Guido Alberto Fano: La Mia Sera

Sara Mingardo contralto

Aldo Orvieto pianoforte

1. Il sogno della vergine, (1913)

2. Nebbia, (1906)

3.  La mia sera, (1906-07)

4. Lungi lungi (1906-07)

5.  Passa la nave mia, (1906)

6. Vere novo, (1906)

7. Ad Annie, (1945)

8. “Genere umano addio” (1903)

Bruno Maderna

Presentato il 22 giugno 1942 nel contesto del “Corso Internazionale di perfezionamento per compositori” tenuto da Gian Francesco Malipiero a Venezia (tra gli allievi del corso erano Bruno Maderna e il pianista Gino Gorini) il Primo Concerto per pianoforte e orchestra rappresenta un momento di autentica immediatezza di scrittura, testimonianza di equilibrio tra sviluppo tecnico e solidità strutturale. In comune con le altre opere pianistiche del periodo, il lavoro (recentemente ritrovato a Verona tra le carte della pianista Bianca Coen) sfoggia una parte solistica brillante e a tratti virtuosistica integrata in un raffinato contesto timbrico orchestrale, con ricercatezze audaci che fanno presagire il Maderna geniale orchestratore della maturità.

Bruno Maderna teneva molto al Concerto, ne è la prova che, nella primavera del 1946, grazie all’amicizia con Bianca Coen il cui fratello Buby risiedeva a Londra, aveva tentato di proporne un’esecuzione forse ad opera di Arturo Benedetti Michelangeli il quale in quegli anni si preparava al suo debutto londinese. Per sostenere l’esecuzione del Concerto presso gli organizzatori delle stagioni concertistiche londinesi, Maderna preparò una trascrizione per due pianoforti che si proponeva di incidere lui stesso insieme a Gino Gorini: “Mi sono interessato e ho trovato da inciderlo in quei dischi di metallo che fanno oggi alla radio”, scriverà in una lettera alla madre adottiva, Irma Manfredi il 4 aprile 1946. Non sappiamo se l’incisione mai avvenne, ma la trascrizione pianistica è miracolosamente sopravissuta: una copia eliografica del manoscritto è stata ritrovata da Giovanni Morelli nel 2007 nel corpus del Fondo Gorini presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Tale versione, pianistica, di estremo interesse, non rivela sostanziali differenze rispetto alla partitura del Concerto del 1941, ma risulta un testimone prezioso per valutare i grandi progressi musicali di Maderna nel periodo 1941/46: Maderna infatti  – trascrivendo per due pianoforti – via via corregge e aggiorna dinamiche e agogiche della partitura alla luce della sua più recente tecnica e sensibilità musicale.

 

Venetian Suite

A distanza di un anno dal Poetry event, performance inedita ed esclusiva, frutto della collaborazione tra la coreografa americana Carolyn Carlson e il compositore veneziano Paki Zennaro, organizzata nell’aprile 2009 dall’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati, viene pubblicato ora il Cd Venetian Suite, una suite di versi e poesie dedicate a Venezia, interpretate da Carolyn Carlson sulle musiche di Paki Zennaro.

Il Cd, in cui la voce di Carolyn Carlson è registrata per la prima volta, è nato dall’incontro dei due artisti sull’Isola di San Giorgio Maggiore nell’aprile 2009. In Venetian Suite episodi musicali eclettici e rarefatti, a volte crudeli, si intrecciano e si fondono con i poems di Carolyn Carlson dando vita, con grazia sapiente, ad un trasporto emozionale dal carattere magico.

Alla realizzazione del Cd hanno contribuito, oltre alla Fondazione Cini, anche l’Accademia Teatrale Nico Pepe di Udine e Matilde Tudori S.A. di Mestre.

Poetessa e calligrafa, oltre che coreografa e ballerina, Carolyn Carlson definisce la sua danza come poesia visiva e ama confrontarsi con artisti di altre discipline realizzando performance sempre nuove all’insegna della sperimentazione e dell’improvvisazione. Uno dei musicisti con cui collabora dal 1981 è Paki Zennaro: con lui ha realizzato in questi anni numerosi progetti di danza, poesia e musica, di cui Venetian Suite è l’ultima, nuovissima fatica.

Kreutzer Time

Davide Amodio, violino (F. Pique, 1793; archetto, Renzo Ghirardelli; corde in budello, Charles Riché)

Edoardo Torbianelli, pianoforte (Iakesh, 1823)

Beethoven, “Kreutzer Sonate”

R. Kreutzer, Sonate

F. Ries, Sonate

Vienna, 24 maggio 1803 ore 8 del mattino, al Teatro Augarten viene eseguita, per la prima volta, la Sonata op. 47 di Ludwig van Beethoven, a Kreutzer; al pianoforte lo stesso autore e al violino lo straordinario dedicatario della sonata: George Augustus Polgreen Bridgetower, per Beethoven Brischdauer o semplicemente Bursch. Ci si potrebbe chiedere perché registrare un’altra edizione della Sonata a Kreutzer? Eppure con un piano del 1823 (quindi appena di venti anni dopo la prima esecuzione) gemello di quello appartenuto a Beethoven, un violino del 1793 senza spalliera, senza mentoniera, con tutte le corde in budello (le prime tre nude e la quarta rivestita a mano di un filo di argento), con un ponticello di forma tardo-settecentesca, l’aiuto di un arco classico copia di uno della fine del XVIII secolo proveniente dalla casa di Mozart a Salisburgo, è possibile, e non è un paradosso, fare qualcosa di nuovo. Adottando anche la tecnica e la postura del corpo, secondo le indicazioni dei metodi coevi alla musica, basta, allora, farsi guidare dagli strumenti stessi verso una comprensione profonda del testo, intendendo il grande “genio” dell’improvvisazione; non solo nella possibilità di aggiungere o togliere note, ma nel modo di sentire i movimenti delle fi gurazioni come se fossero mobili, vivide. È noto che Beethoven fosse un grandissimo improvvisatore, e proprio Bridgetower gli diede una forte sponda. Dunque abbiamo cercato questo spirito, non il riprodurre il suono della serata del 24 maggio 1803, cosa impossibile anche ai loro stessi attori, non ritrovare un archeologico senso di autenticità, ma lo spirito fresco dell’improvvisazione.

Nino Rota. Piano Music

Michelangelo Carbonara, pianoforte

Ippolito gioca

Fantasia in G

Ballo della villanotta in erba

Suite from Fellini’s Casanova

Bagatella

Preludes

Waltz

«Suonava il piano come altri mangiano». Sospirando con un moto misto di invidia e ammirazione, Fedele D’Amico, fraterno amico di Nino Rota e musicologo fra i più significativi del Novecento, si lasciò scappare questa frase durante una intervista. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, dopo questa premessa, il catalogo delle opere composte da Rota per solo pianoforte è estremamente scarno; eppure, questi lavori, dispersi in un catalogo così vasto, costituiscono i frammenti di un puzzle musicale in grado di disegnare un profilo estremamente realistico e veritiero della natura del maestro.

Deità  Silvane. Liriche da camera

Musiche di Ottorino Respighi
Gemma Bertagnolli, soprano
Aldo Orvieto, pianoforte

Deità Silvane (1917)

Cinque liriche su parole di Antonio Rubino. Dedica: Alla Contessa Anna Piccolomini Edizioni Ricordi, Milano

Stornellatrice (1906)

Poesia di: Carlo Zangarini, Alberto Donini. Dedica: Alla Signorina Maria Pedrazzi Edizioni Bongiovanni, Bologna

Quattro Rispetti toscani (1915)

Poesia di: Arturo Birga. Dedica: Alla Signora Argia Pini Edizioni Bongiovanni, Bologna

Tanto bella (1897)

Edizioni Bongiovanni, Bologna

“Evviva Rosabella” (Baldassarre Galuppi, 1706-1785)

Realizzazione del Basso numerato di Ottorino Respighi (1912). Manoscritto inedito conservato presso il Fondo Ottorino Respighi, Fondazione Giorgio Cini, Venezia

Antiche cantate d’amore

Realizzazione del Basso numerato di Ottorino Respighi (1912). Manoscritto inedito conservato presso il Fondo Ottorino Respighi, Fondazione Giorgio Cini, Venezia

L’ultima ebbrezza (1896)

Poesia di: Ada Negri Edizioni Bongiovanni, Bologna

Cinque Canti all’antica (1906)

Poesia di: Giovanni Boccaccio (I. II. III.), Alberto Donini (IV. V.) Dedica: a Giuseppe Borgatti (I. II. III.), a Venturino Venturini (V.) Edizioni Bongiovanni, Bologna

Scherzo (1906)

Poesia di: Carlo Zangarini. Dedica: Alla Signorina Maria Pedrazzi Edizioni Bongiovanni, Bologna

M’arriva il master del disco di Respighi con Gemma Bertagnolli e Aldo Orvieto, mi chiedete se posso scriver qualche nota come presentazione. No, non posso. Non che non sappia nulla sull’argomento. Di Respighi ho ascoltato e veduto opere liriche, effusive, un po’ simboliche e un po’ enfatiche, ho sentito per dischi a cominciare dal vinile poi nelle grandi sale da concerto le sue dilaganti e stupefacenti orchestrazioni dei pezzi sinfonici, ho ascoltato dalla Tebaldi fulgidamente o altre volte in precarie audizioni le sue liriche più famose; una volta le ho persino accompagnate in un piccolo concerto, accettando a patto che la cantante includesse nel programma “L‘ultima ebbrezza”, perché alla fine resta solo il pianoforte in un crescendo modulante d’accordi, che, dopo avere udito in parole la richiesta del fremito supremo dell’amore, sul pianista fa un effetto che non vi dico. Ho la mia idea su Respighi, e la mia idea sul Novecento storico italiano, che facciamo fatica un po’ tutti a riaccogliere nella nostra mentalità, perché sempre un poco pomposo e sovraesposto. Già dire “Deità silvane” fa venire la paura di ritrovarci con Carducci alle Fonti del Clitumno, o al posto di D’Annunzio sotto la pioggia con Ermione, bella poesia la prima, splendida la seconda, ma già in fondo al sacco dorato della nostra cultura d’oggi. E quelle arcaiche cantate, con l’armonia che ci obbliga a una sosta fra il lontano passato e noi in un ieri che non è più il nostro e in un gusto di troppi sapori indistinti, quando abbiamo appena imparato a collegarci direttamente con l’antico sulle onde della filologia! Quando ascolto una cosa nuova, devo mettere tutto in gioco, e non ho più tempo e voglia di giocare su una cosa di ieri. E poi ve lo confesso: con Respighi ho già perduto una scommessa con me stesso, due anni fa. Ascoltavo “I pini di Roma” eseguito con forza e fascino da una giovane orchestra italiana, quella della Fondazione Toscanini. Cominciava l’ultimo crescendo, e mi dicevo che bisogna proprio essere nutriti di cultura italiana, di sapori nostrani, di piacere del canto e della festa dei suoni, per apprezzare veramente. Ma eravamo a New York, al Lincoln Center, ed all’ultimo accordo la gente si era alzata tutta in piedi dall’entusiasmo. Così, per penitenza, ho dovuto rianalizzare la partitura, chiedendomi perché fosse così trascinante e vittoriosa, e me stesso, chiedendomi perché ci lasciamo così pigramente prendere da pregiudizi. Non chiedetemi di pensar oltre. Soprattutto in questo caso, dove dovrei risolvere il problema di perché una cantante che ha per scelta sua prevalente il repertorio barocco abbia desiderato misurarsi con una poetica e un linguaggio così lontani. Tante note, tutte fitte e tutte scritte, poco spazio, via fra gli endecasillabi e gli altri versi non declamati con un clavicembalo o un’orchestra ossequienti, ma a gara con un pianoforte che vuol dire la sua in ogni momento, e a volte a rompicollo. No. Non voglio correre rischi. Tanto più che, per fatale tentazione, ho fatto un piccolo assaggio d’ascolto, ed ho avuto non dirò un piccolo choc ma almeno una pungente sorpresa. Ricordavo l’autorevole ingombro delle voci importanti che cantavano la musica di quell’epoca, divorando sontuosamente vocali e consonanti, e le gole gonfiate delle giovani imitatrici consigliate di far sentir la voce soprattutto, e arrivavano sempre in confusione. Mi è arrivata qui invece una nitida voce fresca, affettuosa, avvezza a giocare con le parole non soltanto per pronunciarle, ma per trarne i troppi significati, le passioni, le ironie, le domande che contengono. La melodia svetta in cima al pentagramma ma dove un suono è ancora naturale, nelle note basse le frasi paiono una confidenza, un monito. Per fatale attrazione ne ho ascoltato un altro brano, ed era uno stornello toscano, e mi veniva in mente Cecco Angiolieri e anche Malaparte, e se non mi obbligavo a non pensare anche Bartali e Benigni, tutte persone che non pensavo d’incontrare. E sopra a loro, come una giocosa sfida lieve per le invincibili ragioni della femminilità, la parola buttata là allegramente e maliziosa. Giuro, ho interrotto presto il terzo ascolto. Perché mi cominciavo a chiedere se non abbiamo imparato a portarci dietro un bagaglio troppo pesante quando ascoltiamo. Se qualche volta non cerchiamo tanto di conquistare e godere, quanto di riaffermare che capiamo, di organizzarci su come capire, con quali parametri di cultura, per poter dare giudizi, a costo di rimanere colpevolmente sempre bene attaccati a noi stessi, come quelli che quando vanno all’estero anche solo per un giorno cercano per prima cosa il ristorante italiano. Se non cerchiamo soprattutto di catalogare. Il Respighi dei programmi di sala, delle note di copertina, è un po’ così: non dirompente come Schoenberg, non prezioso come Debussy, non scarno come Ungaretti e Montale, non visionario come Gabriele Rossetti o Federico Fellini. Il Respighi di Gemma Bertagnolli e di Aldo Orvieto arriva prima, come se insieme raccontassero una sofferenza di ricordi lontani, una felicità di parole vicine, una telepatica intesa nella musica. Per questo adesso chiudo questa lettera e ve la spedisco, e non vi scrivo niente.

Camillo Togni (1922-1993)

Lorna Windsor, Soprano
Ex Novo Ensemble: Aldo Orvieto, Piano; Daniele Ruggieri, Flute / Piccolo; Carlo Lazari, Violin; Mario Paladin, Viola; Carlo Teodoro, Cello; Piero Bonaguri, Guitar.

3 Studies on Morts sans sépulture, Op. 31 (1950)
Flute Sonata, Op. 35 (1953)
Violin Sonata, Op. 37 (1955)
[Piece for Guitar and Cello] (1959; originally untitled)
Pieces for Flute and Guitar (1975/76)
String Trio (1978/80)
Preludes for Piccolo (1980/81)